fuoridalpalazzo

26 novembre 2006

L'ingiusto processo

tribunaleUn processo così non si era visto mai. Per l'occasione dagli uffici della procura avevano mandato un giovane pm, di primo pelo si sarebbe detto, se non fosse che era una donna. Davanti a sé, sul primo tavolo dell'aula, teneva un fascicolo smilzo con un numero scritto sopra : 640, cioè truffa, l'odioso reato (che in Italia in realtà non è abbastanza odiato) commesso da chi raggira il prossimo a proprio vantaggio.
Lui, l'imputato, non c'era: si sa che in tribunale si presentano solo gli innocenti, a soffrire, mentre i colpevoli stanno lontani perché sanno già come funziona. La vittima, invece, quella giovane gabbata che oltre al danno aveva subito anche la beffa di ritrovarsi sui giornali in una situazione dove - effettivamente - faceva la figura dell'ingenua, lei era presente. Per essere lì in prima fila si era presa una giornata di permesso e aveva gli occhi illuminati di speranza perché era arrivato il suo momento: forse non avrebbe più rivisto i suoi soldi, questo lo capiva, gli eventi infatti le avevano consumato anche le ultime scorte di ottimismo, ma avrebbe avuto giustizia e questa - pensava - era la cosa più importante.
Cominciò il dibattimento e il giudice, magistrato stimato, ormai a fine carriera, stava lì sullo scranno con gli occhi chiusi. Uno spettatore inesperto avrebbe pensato, sbagliando, che si era addormentato, ma la verità è che si stava concentrando per non perdere una battuta di quanto veniva detto.
Parlarono i testimoni che si erano presentati puntuali, saltando una giornata di lavoro. In aula spuntò una vecchia fotografia dell'imputato, quel truffatore noto ormai a mezza città, e i testi che avevano atteso per ore in corridoio, sulla panchetta dura di legno, furono tutti concordi e felici di affermare: "Sissignore, questo è lui".
Il giudice parve allora fare un cenno con la testa (ma su quel movimento non vi fu certezza) e la giovane pm pensò che aveva la vittoria in tasca. La vittima della truffa assaporava già la soddisfazione di veder condannato il furfante che l'aveva messa nel sacco, ma l'avvocato difensore - che aveva rinunciato a prendere qualunque iniziativa - continuava tranquillo a buttare giù appunti su un blocco di fogli che nulla aveva a che fare col processo. Il vecchio maresciallo, unico presente nel settore riservato agli spettatori con l'incarico di garantire l'ordine pubblico, pensò: "Questo qui ha un asso nella manica" compiacendosi di come ormai, dopo tanti anni trascorsi nelle aule di giustizia, era diventato un vero intenditore.
Giunse per la pubblica accusa il momento di chiedere la condanna e l'avvocato difensore, nemmeno in quel momento, tradì la minima emozione limitandosi, senza alzare il capo dagli appunti, ad appellarsi alla bontà del giudice. Quello che segue accadde in un attimo (ma la vittima impiegò alcuni giorni per rendersene conto). Il giudice aprì gli occhi all'improvviso e senza ritirarsi in camera di consiglio tirò fuori la mano destra dalla toga e cominciò a scrivere veloce con la penna biro Bic fornita dal ministero. Quindi prese il foglietto in mano e cominciò a leggere di fronte all'aula dove i quattro presenti, carabiniere incluso, si levarono in piedi rispettosi: “Visti gli articoli del codice penale il tribunale condanna...”. La truffata udì quella parola e sentì il cuore gonfiarsi di gioia, ripagata dell'amarezza e persino (pensò in quell'istante) dei risparmi che aveva perso in quell'affare. Peccato solo che l'imputato fosse assente, perché la sua presenza avrebbe moltiplicato il gusto intenso della rivincita. I pensieri – povera vittima – si rincorrevano veloci nella sua mente. Troppo veloci. Forse per questo non ascoltò il vecchio magistrato che continuava a parlare dicendo “...pena condonata per l'indulto” prima di sedersi stanco, chiudere nuovamente gli occhi e sussurrare: “Avanti il prossimo”.
P.S.: ogni riferimento a fatti realmente accaduti è assolutamente intenzionale.

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