fuoridalpalazzo

26 febbraio 2006

C'era una volta il telefono

Eravamo in una stanza della redazione con un gruppo di alunni delle elementari che volevano vedere come si fa il giornale quand'è squillato un cellulare. Le maestre hanno guardato il giornalista ma il mio era spento e la suoneria, potevano capirlo, troppo infantile. Quindi è sceso il silenzio, si è scoperto che la musica arrivava da uno zainetto appoggiato a terra e da due file indietro si è fatta largo a spinte una bambina: "E' il mio E' il mio". Le due maestre, fuori dai gangheri, hanno iniziato a urlare: "Spegnilo, spegnilo Non rispondere Spegnilo subito". Ma lei incurante dell'enormità del gesto ha aperto lo zaino, afferrato quel cellulare a forma di conchiglia che non la smetteva di strillare, l'ha portato all'orecchio con mossa esperta e ha detto: "Pronto?". Attimi di tensione, pubblico in attesa, tutti gli sguardi rivolti verso di lei compresi quelli delle maestre sconfitte, nell'aria un misto di curiosità e ansia per ciò che presto avremmo scoperto, negli occhi dei compagni c'era anche un po' di invidia poi finalmente è arrivata la risposta: "No, oggi no, siamo in gita, ci sentiamo dopo". Quindi ha chiuso l'apparecchio, l'ha infilato in tasca ed è tornata dov'era con la faccia composta di chi dice: "Prego, non fate caso a me, continuiamo pure la lezione".
A questa ragazzina, classe 1996, nata quando gli italiani cominciavano a comprare in massa i cellulari (il più scarso, quello che ho acquistato io, costava quasi 600 mila lire), bisogna raccontare come si faceva a mettersi d'accordo con l'amichetta (o con l'amichetto) per fare assieme la strada dalla scuola verso casa: si stava lì, dall'altra parte della strada quando suonava la campana, ad aspettare che quella (o quello) uscisse. Li chiamavamo appuntamenti e bisognava essere precisi - nel luogo e nell'ora - perché se non ci si incontrava non c'era modo di rimediare con una telefonata o un messaggino al volo.
E per comunicare da un banco all'altro della classe non c'erano i messaggini sul telefonino da spedire di nascosto ma i biglietti di carta vera che volevano sopra le teste degli alunni quando la maestra era impegnata, di spalle, a scrivere alla lavagna. Se uno di quei foglietti veniva intercettato c'era il rischio che un'insegnante che non sapeva cos'era la legge sulla privacy (anche perché non c'era) lo leggesse a voce alta creando un trauma psicologico di cui nessun genitore avrebbe chiesto conto.
Cara bambina, tu che con un tasto chiami l'amica o l'amico del cuore, devi sapere che una volta le telefonate si facevano dall'unico telefono di casa, quello grigio col filo, che non potevi portarlo via e chiuderti in camera, appeso al muro del corridoio o appoggiato al mobile dell'ingresso. Facevi il numero (sapendo che i tuoi di là ti stavano ascoltando) e aspettavi che dall'altra parte rispondesse qualcuno: la prima voce che sentivi non era quasi mai quella che volevi.
Non si parlava a lungo perché c'era un telefono per tutti e dopo un po' ti facevano notare - meti zò - che la linea va lasciata libera e il telefono non serve per chiacchierare (incredibile vero?).
Se proprio volevi un po' di privacy - e avevi un po' più dei tuoi dieci anni - raccattavi un paio di monetine in giro per la casa e correvi alle gabine (con la "g") sapendo che se era l'ora sbagliata trovavi la coda, anche in quelle di piazza Cesare Battisti o alla stazione dove ce n'erano dieci in fila e fra i militari con la testa rasata c'era chi si vantava di telefonare gratis infilando nel posto giusto un pezzo di fil di ferro. E ci riuscivano davvero.
Telefonate se ne faceva una, se ti dimenticavi di dire qualcosa te la mettevi via per il giorno dopo e non cascava il mondo. Ora lo sai perché a noi - che non ci siamo ancora abituati - fa un po' impressione vederti col cellulare in mano che in mezzo alla lezione dici: "Pronto?".

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19 febbraio 2006

Nelle stanze dei bottoni

Per una rubrica che si chiama "Fuori dal palazzo" un'incursione nelle stanze dei Palazzi (quelli con la "p" maiuscola che incutono rispetto, a volte timore) sembrerà strana ma ugualmente andremo lì dentro a farci un giro, con la promessa di mantenere lo spirito di chi da quelle stanze preferisce stare fuori, almeno la domenica.
Questo giro comincia - è ovvio - da piazza Dante, dove il palazzo della Provincia è il più ambizioso e lo fa capire al primo sguardo con i suoi marmi, i pavimenti con il legno a spina di pesce che scricchiola per dimostrare che è roba vera, le sale affrescate, il seminterrato con le pietre a vista, l'ufficio presidenziale di Dellai grande quanto un mini appartamento e quelle crepe sugli stucchi delle porte (nessuno è perfetto) che non hanno retto al primo inverno col riscaldamento accesso. Dall'altra parte della strada c'è il palazzo della Regione dove un giro fra i corridoi non mantiene le promesse della grande architettura esterna: aria di smobilitazione, uffici deserti, sono anni ormai che lì dentro non si decide più nulla.
Al terzo piano di palazzo Geremia, in via Belenzani, si arriva all'ufficio del sindaco calpestando un pavimento di legno d'abete chiaro che se vi cade una moneta resta il segno. Però è bello, si intona con le travi a vista sul soffitto e con le finestre antiche affacciate sui tetti del centro storico. Mentre aspettate Pacher, vi faranno accomodare su uno dei quattro divani fuori del suo ufficio e poi - se è Natale e siete giornalisti - scenderete al piano di sotto per parlare davanti al caminetto acceso.
Un palazzo dove è meglio non andare è quello di giustizia, in Largo Pigarelli, dove le porte dei pubblici ministeri hanno la telecamera per vedere chi c'è fuori. Quella del procuratore è doppia e con l'imbottitura per non far scappare fuori nemmeno un bisbiglio, bei quadri alle pareti (ma sono del Comune), la bandiera d'Italia vicino alla scrivania dove c'è anche uno strano bidone che prende i fogli e li riduce a striscioline: una volta un cronista trovò una carta segreta nel cestino e da allora usano i distruggi-documenti. Ma non sempre.
I corridoi del Commissariato del Governo sembrano più grandi di quanto servirebbe, ma i lampadari delle sale di rappresentanza, i tappeti rossi nei corridoi e gli arredi di prestigio dell'ufficio di De Muro incutono rispetto. Nelle stanze dei carabinieri, in via Barbacovi, c'è la foto del presidente Ciampi ovunque. In quelle degli agenti della questura invece no e mancano molte altre cose: i rinforzi ai pavimenti che vibrano pericolosamente quando ci camminate sopra - ad esempio - ma si fa prima a dire che manca una questura nuova, una dove i fili elettrici corrono sicuri dentro i muri invece di penzolare da un piano all'altro come in una via napoletana.
I più lussuosi fra questi palazzi hanno in comune un vantaggio: il caffè del bar interno costa meno di quello bevuto fuori (dove possono andare tutti) e non si capisce il perché. Ma in tutti i palazzi pubblici c'è una cosa che i loro inquilini a volte si dimenticano. Una cosa che invece le donne delle pulizie hanno ben presente quando la sera tardi (oppure la mattina all'alba) alzano i tappeti per scopare anche là sotto, sollevano le lampade per togliere la polvere dalla scrivania, mettono in ordine le sedie e si chinano sotto i tavoli delle riunioni per pulire i pavimenti. E' allora che vedono quelle etichette con il numero appiccicate su ogni oggetto, nessuno escluso, lo stesso numero che compare nell'elenco affisso in ogni stanza. Voi - visitatori occasionali - a quella lista non farete caso ma c'è sempre, magari dietro una tenda o vicino alla finestra, per ricordare agli inquilini provvisori che quello che c'è là dentro è pubblico e lì deve restare, in attesa del prossimo abitante che - presto o tardi - arriverà dentro il palazzo.

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12 febbraio 2006

Testimoniare che fatica

L'ultima vittima (venerdì) è stata l'assessore comunale Violetta Plotegher, ma può capitare a tutti, un giorno, di trovare nella cassetta delle lettere una busta verde, con vari timbri e l'aspetto un po' inquietante, che vi ordina di presentarvi in tribunale. Niente paura, non siete sotto accusa, siete semplicemente testimoni di qualcosa, il che, talvolta, può essere anche peggio.
Prendiamo l'assessore Plotegher chiamata a dire tutta la verità senza nascondere nulla di quanto a sua conoscenza (così recita la formula che vi faranno leggere) su quanto accadde il primo febbraio 2005 in via Belenzani, quando i Disobbedienti protestarono con i materassi di fronte al municipio. L'assessore al mattino si è presentata puntuale a palazzo di giustizia per scoprire che il processo (come può capitare) era destinato ad iniziare con forte ritardo. Per lei è stata una giornata lunga e stressante ma in questa sede è meglio tagliar corto: alle cinque della sera, dopo che sono stati sentiti cinque testimoni (cinque poliziotti che hanno passato l'intera giornata in tribunale, come lei), le hanno fatto sapere che poteva tornare a casa, ricordandosi però di presentarsi di nuovo il primo marzo, per la seconda udienza del processo. E attenzione: essere puntuali e soprattutto non mancare senza un buon motivo perché la prima volta ti perdonano, la seconda ti danno la multa, la terza ti vengono a prendere a casa i carabinieri. Con la giustizia non si scherza.
Ecco quindi alcune regole di sopravvivenza da ritagliare e imparare a memoria nel caso in cui vi arrivi quella lettera verdina che vi ordina di presentarvi come testimoni nell'aula di un processo penale.
Uno: portatevi un giornale, perché la giornata può essere molto lunga lì seduti su una panchina di ferro dove l'unico passatempo è quello di leggere una lista di nomi con a fianco tanti numeri (che poi sono i reati).
Due: non cedete alla curiosità e quindi non tentate di entrare nell'aula se stanno celebrando il processo dove siete testimoni; voi non potete, dovete restare ingenui come se non vi avessero mai detto di che si tratta (nemmeno l'avvocato che vi ha citato).
Tre: nelle brevi pause tra un processo e l'altro cercate qualcuno dentro l'aula che vi sembri degno di fiducia e chiedetegli, per favore, quanto manca al vostro turno; dopo tre ore lì fuori senza informazioni a molti saltano i nervi.
Quattro: non fate commenti senza sapere chi è seduto attorno a voi, potrebbe scoppiare una lite con i parenti dell'imputato che sono molto più tesi di voi.
Cinque: se il processo è a Trento e avete bisogno del bagno evitate senza indugio quell'unico gabinetto che vi indicheranno al piano terra vicino all'ingresso, senza specchio e senza la chiave, ma prendete l'ascensore e salite fino all'ultimo piano dove vi aspetta un magnifico bagno mansardato con poster alle pareti (vedere per credere).
Sei: il bar del tribunale offre ottimi panini ma chiude nel primo pomeriggio, se l'ora si fa tarda regolatevi di conseguenza.
Sette: non perdete mai la pazienza, nemmeno quando dopo cinque ore di attesa vi chiederanno solo se confermate quanto avevate scritto nella denuncia per furto (tre anni fa, quando vi avevano rubato l'autoradio) e poi vi diranno che potete andare, grazie mille.
Otto: non prendete appuntamenti per quella giornata, nulla è più importante della vostra testimonianza e se ve ne andate all'improvviso siete nemici della Giustizia.
Nove: non sentitevi vittime del sistema, non pensate di essere su scherzi a parte, non illudetevi di essere protagonisti di una (dis) avventura senza precedenti. C'è gente che sta molto peggio di voi, ad esempio l'imputato oppure quei testimoni che per dire ciò che sanno (senza nascondere nulla di quanto sanno) si sono fatti centinaia di chilometri, hanno perso una giornata di lavoro e riceveranno un rimborso che gli permetterà di pagarsi - forse - il pranzo.
Dieci: quando tutto sarà finito tornate a casa sollevati, contenti di avere fatto il vostro dovere (solo il vostro dovere, nulla di più, non montatevi la testa sentendovi cittadini modello) senza cedere alla tentazione - quando vi capiterà ancora di essere protagonisti di un evento - di voltarvi dall'altra parte e dire: "Io? Io non c'ero, non ho visto nulla, io non so niente, io non c'entro" come sarebbe comprensibile dopo aver provato come ci si sente piccoli e impotenti di fronte all'immensità della macchina che assicura la Giustizia.

05 febbraio 2006

L'imbarazzo della sauna

Ci sono cose che è molto meglio fare fuori provincia: i trentini lo sanno e in questo sono veri specialisti. Non pensate subito male, nulla di proibito, tutte cose che si possono scrivere sul giornale come - ad esempio - andare a far la spesa. Quando si tratta di acquisti la parola d'ordine è "Sud", perché il meridione - chissà perché - fa venire in mente prezzi buoni, sconti e grandi assortimenti. Così gli altoatesini scendono in Trentino e prendono d'assalto il Mercatone, l'Obi e i centri commerciali mentre i trentini calano ad Affi, Verona o più giù verso gli outlet dei vestiti e i veneti chissà, forse almeno loro fanno le spese a casa propria.
Quando si tratta di andare a spasso invece la parola d'ordine diventa "Nord", come se salendo lungo la penisola per una gita domenicale (magari sconfinando in Austria) i prati diventassero più verdi, i centri storici più caratteristici, le montagne più belle, gli alberghi più accoglienti, la neve più bianca e le mucche più mucche.
Se parliamo di sanità, infine, la parola d'ordine dei trentini diventa "altrove" tanto che all'azienda sanitaria non sanno più come fare a trattenere i pazienti che si fanno curare le gambe rotte in Alto Adige, l'esame Tac in Veneto e per malattie più gravi si spingono in Lombardia se non addirittura all'estero, senza dimenticare mai di spedire a Trento la parcella da pagare.
Ma c'è un tipo di mobilità - già nota agli amministratori trentini - che nessuno (nessuno, nonostante ci stiano già provando) riuscirà mai a fermare: è quella che porta ogni settimana centinaia di trentini (migliaia?) all'Acquarena di Bressanone oppure alle Terme di Merano, ma anche nelle vasche di Seefeld, poco al di là del confine.
L'assessore comunale Pegoretti vuole tentare anche in città la carta del parco acquatico, a Baselga di Piné sono più avanti e hanno già un progetto pronto per una piscina dell'ultima generazione ma non tengono conto dei veri motivi che spingono i trentini a macinare chilometri solo per farsi un bagno. Non è questione di vasche con le onde, idromassaggi, ampie vetrate, scivoli che vanno bene solo per i bambini, sedie a sdraio rilassanti oppure ristoranti esotici per chiudere la giornata. Il fatto è che per fare la sauna, il bagno turco, un tuffo nella tinozza gelida oppure una seduta di idromassaggio all'aperto mentre fuori nevica, bisogna presentarsi nudi. Il che vuole dire nudi, senza asciugamano sotto o sopra, proprio nudi, senza appello, che se per caso ti porti dietro uno straccetto ti senti fuori posto.
Ebbene in questo (ma non solo) gli altoatesini sono diversi: per loro, almeno quelli che parlano tedesco, è naturale sedersi nella sauna e conversare a bassa voce col vicino, aggirarsi tra le nebbie del centro benessere senza pudore, rilassarsi senza costume in una piscina con vista sulle Alpi. Per i trentini - che degli altoatesini sono i meridionali - naturale lo è molto meno e togliersi l'asciugamano risulta più facile quando lo si fa a cento chilometri da casa, lontano dallo sguardo del collega di lavoro, del vicino di casa o dell'ex compagno di scuola.
Lassù, nei vapori della grande Acquarena brissinese, donne che al lago di Caldonazzo prendono il sole con il costume intero trovano il coraggio di lasciarsi andare ("si fa così, bisogna rispettare le regole del luogo in cui si va...") dopo aver inventato una scusa per separarsi dagli amici un sabato o una domenica. Ci sono compagnie di amici, coppie, famiglie intere che hanno vissuto momenti di crisi perché qualche sventato ha lanciato pubblicamente la proposta: "Andiamo tutti assieme a fare la sauna all'Acquarena?".
Capita così qualche incontro inevitabile, perché cento chilometri non sono poi tanti e lì - tra le nebbie a cento gradi - ci si ritrova a salutare l'avvocato o il presidente, senza sapere se da nudi, magari con gli occhiali roventi e appannati, bisogna stringersi la mano come in ufficio, darsi una pacca sulla spalla oppure basta un cenno cortese per ritenersi soddisfatti, facendo attenzione a non far scappare l'occhio. Gli altoatesini no, a loro viene tutto più naturale, mentre i trentini corrono dalla moglie o dall'amica e dicono: "Sai chi c'è di là? Il dirigente". "Ma dai, veramente?".
Le saune in Trentino ci sono già, basta andare a Ravina (c'è un centro benessere molto attrezzato), oppure a Levico (dove un albergo nuovo di zecca apre le porte anche a chi vuole passare mezza giornata a mollo) ma la realtà è che per togliersi l'asciugamano - come per molte altre cose - i trentini preferiscono correre lontano.

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