C'era una volta il telefono
Eravamo in una stanza della redazione con un gruppo di alunni delle elementari che volevano vedere come si fa il giornale quand'è squillato un cellulare. Le maestre hanno guardato il giornalista ma il mio era spento e la suoneria, potevano capirlo, troppo infantile. Quindi è sceso il silenzio, si è scoperto che la musica arrivava da uno zainetto appoggiato a terra e da due file indietro si è fatta largo a spinte una bambina: "E' il mio E' il mio". Le due maestre, fuori dai gangheri, hanno iniziato a urlare: "Spegnilo, spegnilo Non rispondere Spegnilo subito". Ma lei incurante dell'enormità del gesto ha aperto lo zaino, afferrato quel cellulare a forma di conchiglia che non la smetteva di strillare, l'ha portato all'orecchio con mossa esperta e ha detto: "Pronto?". Attimi di tensione, pubblico in attesa, tutti gli sguardi rivolti verso di lei compresi quelli delle maestre sconfitte, nell'aria un misto di curiosità e ansia per ciò che presto avremmo scoperto, negli occhi dei compagni c'era anche un po' di invidia poi finalmente è arrivata la risposta: "No, oggi no, siamo in gita, ci sentiamo dopo". Quindi ha chiuso l'apparecchio, l'ha infilato in tasca ed è tornata dov'era con la faccia composta di chi dice: "Prego, non fate caso a me, continuiamo pure la lezione".
A questa ragazzina, classe 1996, nata quando gli italiani cominciavano a comprare in massa i cellulari (il più scarso, quello che ho acquistato io, costava quasi 600 mila lire), bisogna raccontare come si faceva a mettersi d'accordo con l'amichetta (o con l'amichetto) per fare assieme la strada dalla scuola verso casa: si stava lì, dall'altra parte della strada quando suonava la campana, ad aspettare che quella (o quello) uscisse. Li chiamavamo appuntamenti e bisognava essere precisi - nel luogo e nell'ora - perché se non ci si incontrava non c'era modo di rimediare con una telefonata o un messaggino al volo.
E per comunicare da un banco all'altro della classe non c'erano i messaggini sul telefonino da spedire di nascosto ma i biglietti di carta vera che volevano sopra le teste degli alunni quando la maestra era impegnata, di spalle, a scrivere alla lavagna. Se uno di quei foglietti veniva intercettato c'era il rischio che un'insegnante che non sapeva cos'era la legge sulla privacy (anche perché non c'era) lo leggesse a voce alta creando un trauma psicologico di cui nessun genitore avrebbe chiesto conto.
Cara bambina, tu che con un tasto chiami l'amica o l'amico del cuore, devi sapere che una volta le telefonate si facevano dall'unico telefono di casa, quello grigio col filo, che non potevi portarlo via e chiuderti in camera, appeso al muro del corridoio o appoggiato al mobile dell'ingresso. Facevi il numero (sapendo che i tuoi di là ti stavano ascoltando) e aspettavi che dall'altra parte rispondesse qualcuno: la prima voce che sentivi non era quasi mai quella che volevi.
Non si parlava a lungo perché c'era un telefono per tutti e dopo un po' ti facevano notare - meti zò - che la linea va lasciata libera e il telefono non serve per chiacchierare (incredibile vero?).
Se proprio volevi un po' di privacy - e avevi un po' più dei tuoi dieci anni - raccattavi un paio di monetine in giro per la casa e correvi alle gabine (con la "g") sapendo che se era l'ora sbagliata trovavi la coda, anche in quelle di piazza Cesare Battisti o alla stazione dove ce n'erano dieci in fila e fra i militari con la testa rasata c'era chi si vantava di telefonare gratis infilando nel posto giusto un pezzo di fil di ferro. E ci riuscivano davvero.
Telefonate se ne faceva una, se ti dimenticavi di dire qualcosa te la mettevi via per il giorno dopo e non cascava il mondo. Ora lo sai perché a noi - che non ci siamo ancora abituati - fa un po' impressione vederti col cellulare in mano che in mezzo alla lezione dici: "Pronto?".
A questa ragazzina, classe 1996, nata quando gli italiani cominciavano a comprare in massa i cellulari (il più scarso, quello che ho acquistato io, costava quasi 600 mila lire), bisogna raccontare come si faceva a mettersi d'accordo con l'amichetta (o con l'amichetto) per fare assieme la strada dalla scuola verso casa: si stava lì, dall'altra parte della strada quando suonava la campana, ad aspettare che quella (o quello) uscisse. Li chiamavamo appuntamenti e bisognava essere precisi - nel luogo e nell'ora - perché se non ci si incontrava non c'era modo di rimediare con una telefonata o un messaggino al volo.
E per comunicare da un banco all'altro della classe non c'erano i messaggini sul telefonino da spedire di nascosto ma i biglietti di carta vera che volevano sopra le teste degli alunni quando la maestra era impegnata, di spalle, a scrivere alla lavagna. Se uno di quei foglietti veniva intercettato c'era il rischio che un'insegnante che non sapeva cos'era la legge sulla privacy (anche perché non c'era) lo leggesse a voce alta creando un trauma psicologico di cui nessun genitore avrebbe chiesto conto.
Cara bambina, tu che con un tasto chiami l'amica o l'amico del cuore, devi sapere che una volta le telefonate si facevano dall'unico telefono di casa, quello grigio col filo, che non potevi portarlo via e chiuderti in camera, appeso al muro del corridoio o appoggiato al mobile dell'ingresso. Facevi il numero (sapendo che i tuoi di là ti stavano ascoltando) e aspettavi che dall'altra parte rispondesse qualcuno: la prima voce che sentivi non era quasi mai quella che volevi.
Non si parlava a lungo perché c'era un telefono per tutti e dopo un po' ti facevano notare - meti zò - che la linea va lasciata libera e il telefono non serve per chiacchierare (incredibile vero?).
Se proprio volevi un po' di privacy - e avevi un po' più dei tuoi dieci anni - raccattavi un paio di monetine in giro per la casa e correvi alle gabine (con la "g") sapendo che se era l'ora sbagliata trovavi la coda, anche in quelle di piazza Cesare Battisti o alla stazione dove ce n'erano dieci in fila e fra i militari con la testa rasata c'era chi si vantava di telefonare gratis infilando nel posto giusto un pezzo di fil di ferro. E ci riuscivano davvero.
Telefonate se ne faceva una, se ti dimenticavi di dire qualcosa te la mettevi via per il giorno dopo e non cascava il mondo. Ora lo sai perché a noi - che non ci siamo ancora abituati - fa un po' impressione vederti col cellulare in mano che in mezzo alla lezione dici: "Pronto?".
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