fuoridalpalazzo

28 maggio 2006

Sommerso dalle foto

Per raccontare i primi trent'anni della mia vita ci saranno cento foto, bastano e avanzano, ma per gli altri cinque ce ne sono 15.626: le ho contate l'altro ieri, il computer sta scoppiando, un giorno o l'altro premo un tasto e le cancello. All'inizio erano poche. Il mio primo compleanno? Tre foto, perché l'evento era importante e bisognava essere sicuri. L'anno dopo una soltanto, poi più niente, tanto queste feste sono tutte uguali. Per le scuole elementari una fotografia scattata in quinta, tutti assieme con la maestra, l'unico malato è come se non ci fosse stato mai, per la storia resterà un fantasma. Alle medie niente foto, alle superiori qualche gita.
Altri tempi quelli delle macchine con la pellicola: se c'era qualcosa di importante si tirava fuori la macchina e ci si metteva in posa, altrimenti un rullino già iniziato poteva restare anni nella fotocamera ad aspettare il momento giusto. Poi è arrivata la digitale, strumento ideale per il clic selvaggio. La prima che presi in mano era in redazione: foto di tutti i colleghi, qualcuno due scatti, totale trenta foto. Che sarà mai? Mica c'è il rullino, prima si scatta poi si cancella, ma di cancellare e buttar via non si ha mai il coraggio e le immagini si accumulano. E ora il telefonino, ogni momento è quello giusto: brindisi con gli amici perché uno si è trovato la morosa? Cinque foto. C'è anche lei? Dieci foto. E una studentessa bionda che arriva dalla Svezia? Cinquanta foto. Auto nuova? Dieci foto, cinque all'esterno, tre dentro e due mentre siete al volante orgogliosi. Moto nuova? Venti foto. Matrimonio di un amico con rimpatriata di tutta la compagnia? Duecento foto, molte più di quelle che scatterà il fotografo ufficiale, con la promessa di spedirsele l'un l'altro con l'email: ma poi ci si saluta e le foto chi le ha viste mai? Nascita di un figlio, soprattutto il primogemito? Mille foto, tutte il primo mese: lui che nasce, lui che dorme, lui che piange, lui che ride, lui nella culla, lui sul fasciatoio, lui da solo, lui con voi, lui coi nonni, lui con uno di cui non ricordate più il nome... poi cambiate computer perché quello vecchio è pieno come un uovo.
L'altro giorno, sui tornanti del Bondone, è successo un fatto strano: tutti al bordo della strada ad aspettare Basso e Simoni (più Simoni che Basso, ma è lo stesso), con le televisioni dei camperisti che annunciavano l'arrivo della corsa. Tutti lì pronti ad applaudire ma quanto da là sotto spunta la maglia rosa che succede? La gente invece di battere le mani tira fuori il cellulare e comincia a scattare foto, tutti alla ricerca dello scatto unico che diventerà invece un'immagine sfuocata e mossa da mostrare agli amici al bar indicando un puntino microscopico dicendo: lo vedi questo? Questo qui è Basso, anzi no forse è Simoni, be' insomma uno dei due, ero là e l'ho visto di persona.
Ai concerti una volta si tirava fuori l'accendino per agitarlo con la mano tra la folla, oggi quelle che luccicano negli stadi e nei palazzetti non sono le fiammelle ma i flash delle compatte. Viviamo col terrore che un giorno tutte queste immagini svaniscano nel nulla, il giorno che il computer non si accenderà e sapremo così che un virus si è mangiato il nostro passato. Su questo i fotografi - quelli veri - tentano di recuperare terreno e di tanto in tanto lanciano l'allarme dicendo che tutte queste foto sarebbe meglio metterle sulla carta. Ma per stampare 15 mila foto bisognerebbe fare un mutuo. Allora, guardando tutti quei colori, pensiamo che in fondo le immagini che contano sono forse una decina, diciamo cinquanta, al massimo cento. Anzi, quei momenti che più ricordate sono quelli che vivono solo nella vostra testa perché in quell'istante unico - e per voi speciale - avevate altro da fare che tirare fuori la macchina fotografica o il telefono e dire: fermi tutti vi voglio immortalare.

Etichette:

21 maggio 2006

La caccia al posto auto

La ricerca disperata di un parcheggio gratis a un certo punto diventa una questione di principio: dopo mezz'ora passata a fare il giro dell'isolato non si può ammettere la sconfitta e infilare l'auto in un posto a pagamento. Bisogna, al contrario, tenere duro e affinare le tecniche di ricerca (prima) e di conquista (poi) note agli automobilisti di tutto il mondo.
I metodi sono vari e ognuno sceglie quello che più si adatta al suo carattere. L'automobilista nervoso sfreccia nel traffico sorpassando i concorrenti che potrebbero trovare un posto prima di lui, finché non vede un'auto uscire da un parcheggio e allora inchioda all'improvviso sperando di non finire tamponato. Quello calmo, ma solo all'apparenza, si ferma a lato della strada costringendo i veicoli a girargli attorno: sembra che dorma, incurante di chi gli strombazza addosso, ma lui scruta l'orizzonte e quando vede una vettura con le luci di retromarcia accese sorprende i rivali e si lancia alla conquista. C'è poi l'automobilista socievole che lascia l'auto in doppia fila, mette le quattro frecce, scende sul marciapiede e abborda le persone che passano: "Scusi il disturbo, si sta forse recando a prendere la sua auto?". Se la risposta è affermativa scorta il passante fino al posto (volente o nolente, non c'è scelta) e ne diventa il proprietario. Non mancano i virtuosi del volante, quelli che si dedicano ai parcheggi che nessuno vuole, quelli troppo stretti o troppo corti, insomma ciò che resta fra due auto mal parcheggiate, oppure quei posteggi con l'albero in mezzo o con il marciapiede alto venti centimetri che spaventa anche i fuoristrada. Ma lui no, l'automobilista virtuoso, manovra con due dita la sua auto che sembra farsi piccola mentre lui la spinge dove pareva impossibile, senza disdegnare un colpetto davanti e uno dietro per guadagnare qualche centimetro sperando che non comincino a suonare gli allarmi: si chiamano o no - si giustifica lui - paraurti?
Chi non è né socievole né virtuoso deve giocare la carta dell'esperienza: dopo anni passati a caccia di posteggi nella stessa città, questi automobilisti esperti sanno dove è più probabile che resti un buco, conoscono i piazzali delle aziende private dove è possibile fingersi clienti tanto la sbarra rimane aperta tutto il giorno, hanno imparato quali sono le zone più battute dai vigili urbani e quindi corrono il rischio calcolato lasciando l'auto dove non si può. Se poi arriva la multa fanno il conto dei giorni che hanno lasciato l'auto in sosta senza pagare e se il bilancio è positivo sorridono contenti.
Per tutti, in questa giungla di metallo e asfalto dove i posti gratuiti sono molti meno delle auto che vorrebbero occuparli, bisogna esercitare queste doti: la vista acuta, per scorgere da lontano un movimento insolito, un'interruzione nella spianata di lamiere oppure una luce che si accende; la prontezza di riflessi per scattare come ghepardi sulla preda; l'inflessibilità, perché la ricerca del posto libero è solo il primo passo, poi c'è la fase della conquista e non bisogna farsi impietosire da un donna che fa gli occhi dolci oppure - peggio - da una vecchietta che si para in mezzo a braccia larghe mentre il marito (molto più lento di voi con il volante) fa manovra con il motore a 5 mila giri. Spiegatele (alla vecchietta) che il posto è di chi arriva prima, ma con l'auto non a piedi.
In altre parti d'Italia c'è chi si è giocato il parcheggio a colpi di pistola. Sarà per questo - per evitare sparatorie - che il Comune ha deciso di eliminare i posti auto gratis che erano rimasti nel centro della città: dal primo ottobre saranno tutti a pagamento. Per me cambia poco: dopo una mattina trascorsa in auto per scrivere un articolo risalirò in bici, socio orgoglioso del club dei ciclisti per cui la caccia al posto auto è l'ultimo dei problemi.

14 maggio 2006

Così ho sconfitto le formiche

Ci sono metodi naturali e metodi artificiali. Io fino all'altro giorno preferivo i secondi - rapidi, efficaci, sicuri - ma ora non so più. Il dubbio mi è venuto l'altro giorno quando ci siamo portati a casa un gelsomino nuovo con un sacco di terra fresca: "Sarebbero 33 euro, ma vi faccio 30" aveva detto il vivaista aggiungendo di metterlo al sole e di dargli acqua. Ma aveva taciuto, quell'uomo, che nel prezzo era compresa anche una colonia di formiche.
Ce ne siamo accorti il giorno dopo quando abbiamo visto le prime sgranchirsi lungo i lati della terrazza. All'inizio erano poche e ho cominciato a ucciderle a sangue freddo una per una con il dito, plic, plic, plic, chiedendomi se fosse quello il modo giusto. Ma più ne schiacciavo - plic - più quelle mandavano rinforzi così ho deciso di adottare il metodo (naturale) del mio amico G., un pacifista di buon carattere che aveva avuto lo stesso guaio un anno prima: "Devi prendere un pezzo di pane e metterglielo vicino così loro stanno lì a mangiare e non ti entrano in casa". L'ho fatto, senza crederci, e me ne sono pentito un'ora dopo quando quel pezzo di pane era diventato una palla nera brulicante di formiche, tanto che quasi gli spuntavano le gambe e se ne andava via da solo.
Qua ci vogliono le maniere forti - mi son detto - ma si era fatto tardi. Le ho foraggiate con un'altra mezza spaccatina e me ne sono andato a lavorare. Al ritorno, col buio, tutto pareva tranquillo, compreso il pane che se ne stava lì abbandonato. E' stato il giorno dopo, all'alba, che si è verificata la catastrofe con due colonne scure che salivano e scendevano lungo il muro, fitte come un'autostrada prima di ferragosto. Allora sono corso in via Rosmini, dove c'è un negozio specializzato in queste cose: "Qualcosa contro le formiche" ho detto, facendo capire di avere fretta. Il ragazzo mi ha allungato due scatolette verdi che mi sembravano giocattoli. "Di più, di più" ho protestato. "Voglio qualcosa di più forte". Allora il commesso è tornato con un flacone di cartone su cui c'era lo stemma della morte. Me l'ha dato dicendo: "Ci vada piano". Bingo.
Le istruzioni - dico la verità - le ho lette fino in fondo perché sono una persona coscienziosa: quattro grammi per metro quadro. Ma quando ho visto le mie nemiche fare il giro a quel mucchietto come se niente fosse ho perso la testa. Ho capovolto la scatola e le ho sepolte qui e là con quella polvere: tempo dieci minuti e la fiumana si è esaurita mentre la scatola che tenevo in mano era ormai quasi vuota. Di migliaia che ce n'erano - sorpresa - sul campo sono rimasti solo pochi cadaveri, tanto che mi è venuto il dubbio: dove finiscono le formiche morte? Bah, dettagli. Ho fatto due calcoli e ho stimato che con quel veleno potevo disinfestare il parco Santa Chiara.
"Care formiche, ho vinto" pensavo mentre mi lavavo con cura le mani usando acqua e sapone (come dicevano le istruzioni), facendo attenzione a non contaminare gli alimenti e a non respirare la terribile arma chimica che era rimasta in quantità lì fuori. Ah, che gran cosa la scienza, queste conquiste del progresso che ci liberano dai fastidi di stagione come, ad esempio, le formiche. Questo pensavo nei giorni scorsi quando mi è suonato il campanello (strano, a quell'ora) e ho aperto la porta alla mia vicina. Voleva sapere se avevo visto il suo gatto, quella bestiola simpatica che arrampicandosi chissà dove frequentava anche casa nostra. Oddio no, era da quel giorno che non lo vedevo più. Da domani solo metodi naturali.

Etichette:

07 maggio 2006

Io vittima del bancomat

Sono una vittima del black out dei bancomat. Tutto è cominciato l'altro pomeriggio con una telefonata di mia moglie che mi chiedeva aiuto: "Mi puoi portare cento euro per favore? Devo pagare il conto e il mio bancomat non funziona, ho già provato in quattro banche". Ci mancava solo questa. Ero già nervoso e sono partito come una furia - sebbene in bicicletta - imprecando contro le donne che non sanno usare il bancomat, che non ricordano i numeri segreti, che infilano la tessera alla rovescia, che non si ricordano quando è scaduta, che lasciano andare il conto in rosso e via dicendo.
Quattro banche, figuriamoci... E poi quanto sono fiscali queste donne, che tengono in ostaggio altre donne per un problema al bancomat. Se non ci fossi io.
Per portare cento euro bisogna prima di tutto averli e nel mio portafoglio ce n'erano appena cinque, altri due e mezzo nelle tasche, ma la città è piena di banche, siamo la capitale italiana degli sportelli, e avevo solo l'imbarazzo della scelta. Alla prima banca (rurale di piazza Fiera) c'era un cartello che mi ha spedito nella sede nuova dall'altra parte della strada. Con grande sangue freddo ho infilato la mia tessera scintillante nello sportello, ho digitato il codice segreto (che ci vuole?) e ho atteso la risposta che però non è arrivata. Invece mi hanno sputato fuori la tessera suggerendomi di contattare il mio istituto di credito. Piccolo bagno di umiltà, anche perché la mia banca è un sito internet, a volte una voce, di solito molto gentile ma pur sempre una voce, da cui non è semplice tirare fuori banconote se la tessera non funziona.
Poco più là ho visto il simbolo della Volksbank, forti questi tedeschi, sempre affidabili, e mi sono precipitato al loro bancomat che è installato dentro l'edificio proprio vicino allo sportello dove c'è l'impiegato in carne e ossa: lo fanno apposta per conquistare nuovi clienti. Anche lì tessera, codice segreto, breve attesa, tanti saluti ma niente soldi. La signorina - che non era tedesca, nemmeno da lontano - mi ha consigliato di contattare la mia banca con un tono che non mi è piaciuto: che hanno tutti da guardarmi come un pezzente? Giusto per darmi un tono - e per togliermi il dubbio che ormai mi era venuto - ho preso il telefonino e con due mosse sui tasti ho verificato che i soldi sul conto c'erano eccome. Il problema era tirarli fuori.
Alla Popolare di Verona stessa scena. Niente soldi nemmeno all'Unicredit e nessuno che sapesse darmi una spiegazione. E fanno quattro: possono bastare, mi sono detto. Stringendo la mia inutile tessera in mano, senza più furia, mi sentivo come quel tale che quando salta la corrente corre all'interruttore per riaccendere la luce. Potevo tornare a casa e prendere un assegno, ma l'ultima volta che ho provato a cambiarne uno c'è mancato poco che mi chiedessero un certificato antimafia. Ho lasciato perdere.
Stavo lì nella strada come quelli che chiedono un euro per la corriera (e poi si infilano in un bar), quando ho visto il mio collega G. avanzare con il suo vestito nuovo e una ventiquattrore fiammante che, per quanto ne sapevo io poteva pure essere piena di denaro: senti un po' - gli ho detto, rinunciando a rapinarlo - non è che mi tiri fuori 100 euro che non mi va il bancomat? Mi ha guardato con una faccia strana - ancora quella faccia - e ha infilato nello sportello la tessera pacchiana della sua piccola banca, davvero una banchetta, non ci avrei scommesso dieci euro (anche perché in quel momento non li avevo). Trenta secondi dopo, fischiettando con quell'espressione odiosa, mi ha consegnato i soldi in mano: il mio funziona benissimo, ha detto. Inutile discutere: con le orecchie basse, i cento euro in tasca e molte certezze in meno, sono corso poco lontano a liberare l'ostaggio che era ancora prigioniero.