Scrivo da una località di montagna per avvisare i lettori di una minaccia che quest'anno, più che mai, rischia di rovinare la vacanza a chi sogna il silenzio, la natura e le tradizioni delle Dolomiti. Scriverò dei parchi giochi, ma non di quegli innocui giardini con lo scivolo, l'altalena e la buca della sabbia a cui abbiamo fatto l'abitudine. No, qui si tratta di immense navi dei pirati e di giganteschi scivoli gonfiabili, alti come una casetta di due piani, che spiccano nel verde dei prati con i loro colori rosa, giallo e blu. Nel paese in cui abitiamo ce n'è uno che esibisce all'ingresso la seguente referenza: “Il più grande parco giochi gonfiabili delle Dolomiti”. Niente meno.
All'inizio ci sembrò una gran fortuna, quella di avere una tale attrazione dietro casa, dove parcheggiare il piccolo e passare un pomeriggio in libertà al prezzo popolare di quattro euro e cinquanta. Ci siamo cascati come polli: quei giganteschi palloni, forse studiati da psicologi dell'età evolutiva per fare colpo sui piccoli turisti, sono diventati il nostro incubo e la parola “giochi” è la colonna sonora della nostra vacanza, urlata con tonalità e intensità diverse a seconda del momento. Giorno dopo giorno guardo con odio l'improvvisato Mangiafuoco all'ingresso del suo baraccone. Forse dovrei chiamarlo pifferaio per l'abilità con cui incanta i suoi giovanissimi clienti e in realtà anche qualche madre: mi chiedo se ha fatto un corso per essere così efficace nel conquistare gli ospiti che varcano la sua soglia e – da quell'istante – fanno di tutto per tornarci. Sono arrivato a sospettare che sia tutta colpa delle caramelle – drogate? - che tiene in un cestino nella casetta in cui stacca i biglietti mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera e notte perché il più grande parco giochi delle Dolomiti non chiude mai e per evitare capricci disperati siamo giunti a cambiare il nostro percorso abituale, prolungando la strada di un paio di chilometri, per arrivare a casa dal retro senza passare di fronte al paese dei balocchi.
Basta, mi son detto, siamo qui per goderci le montagne e non quattro palloni gonfiati: domani si sale in quota. Detto fatto: attraversando un paesino dopo l'altro al grido di “giochi! giochi! giochi!” perché non c'è ormai più località turistica degna di questo nome priva del gigantesco scivolo gonfiabile, siamo giunti ai piedi di un pascolo. “Giù dall'auto – ho ordinato alla mia truppa – si va a a scoprire da dove viene il latte che beviamo la mattina”. C'erano le mucche, le capre, qualche gallina e un paio di maiali ma ugualmente dallo zaino porta-bimbo che tenevo sulle spalle ho udito un urlo lancinante: “Giochi!”. C'erano veramente – dietro il rifugio – un castello delle fate e una casetta di Biancaneve tenuti in piedi da un motorino ronzante che pompava aria a tutto spiano.
“Più su, più su, dobbiamo andare più su” ho ordinato disperato, incamminandomi lungo un sentiero che ricordavo a malapena ma – non avevo dubbi – ci avrebbe portato sulle montagne vere lasciando a valle l'incubo dei giochi.
Un'ora di cammino in salita, a lato di un minuscolo ruscello, tra le tracce di qualche invisibile capriolo (a Ferragosto soffrono la folla e vanno in vacanza pure loro), ci ha portati in cima ad un versante. Ancora pochi passi e saremmo stati lassù, a tu per tu con le pareti pallide di roccia con i segni neri lasciati dalla pioggia e i ghiaioni frantumati l'inverno dai ghiacci. Avrei voluto dire: “Signore e signori, ecco a voi le Dolomiti” invece per prudenza mi sono trattenuto, subito preceduto da mio figlio che dalle mie spalle, in posizione dominante, ha avvistato l'oggetto del desiderio e stanco di caprette e stelle alpine ha cacciato l'urlo più soddisfatto che mai sia risuonato in quelle valli amplificato dall'eco delle rocce: “Giochiiiii!”.
Quando si perde è saggio ammettere la sconfitta: sono qui a 2.000 metri che digito questo articolo sul telefonino, seduto su una panca assieme ad altri padri orgogliosi – saliti in quota in seggiovia - che fotografano e riprendono i loro bambini mentre saltano felici nella pancia di un'enorme Civetta di plastica viola che nasconde alla vista la Civetta vera, fatta di roccia bianca. Che i bambini siano felici non mi sorprende, quel che mi preoccupa è che lo siano i loro padri.
Etichette: story-post