Alle 10 del mattino il parcheggio del rifugio dolomitico - si fa per dire, rifugio, visto che ci si arriva in auto - è identico al parcheggio cittadino, cioè pieno zeppo. L’unica differenza è che in città c’è chi rischia la multa lasciando l’auto in doppia fila mentre in montagna - a ferragosto - si può sempre sconfinare nei pascoli, come fanno quelli con il fuoristrada, felici - finalmente - di dare un senso alla loro autovettura. C’è un’altra differenza - volendo essere precisi - tra il parcheggio del rifugio dolomitico e quello cittadino ed è il valore delle auto in sosta che in montagna - a ferragosto - è così sfacciatamente alto che i titoli dei giornali sulla crisi pare si riferiscano a un altro paese. Dal parcheggio del rifugio dolomitico al rifugio dolomitico ci sono tre minuti a piedi lungo un sentiero di terra battuta e sassi, con mucche ai lati che fanno molto montagna. Sentiero battuto da due categorie di persone: quelli che credono di essere in montagna e quelli che vorrebbero molto essere in montagna ma per motivi vari si ritrovano, soffrendo, in queste città d’alta quota che si formano pochi giorni all’anno. Nelle città d’alta quota la gente parla di argomenti cittadini, perché quando si va in vacanza per tre giorni (e non due settimane o un mese) non si può chiedere al cervello di staccare la spina per poi riprendere il ritmo con fatica. Dirò così quello che ho origliato - mio malgrado, colpa del volume troppo alto - in una di queste città d’alta quota in cui mi sono ritrovato. Gli uomini parlano nell’ordine di lavoro, trasporti e soldi. Le donne parlano nell’ordine di figli, vacanze (non quelle che stanno facendo, quelle che hanno già fatto o faranno) e soldi. Soldi che - qualunque sia l’auto lasciata in sosta nel parcheggio - sono sempre troppo pochi. Così nella città d’alta quota si impara qual è la strada e l’ora migliore per arrivare lassù azzeccando una partenza e un ritorno intelligenti, dove fare benzina per risparmiare qualche centesimo, dove bisogna fermarsi per mangiare un panino, quale sia la tariffa migliore per telefonare o mandare messaggi, quanto siano stronzi i capi (o i dipendenti, dipende da chi parla), quale sia la migliore scuola di musica nella città di bassa quota e quale sia l’istruttore di tennis più capace. Delle vacanze in montagna - magari per consigliarsi a vicenda un sentiero da percorrere oppure un valle da esplorare - non si parla, tanto per le nuove scoperte non ci sarebbe il tempo. Si dibatte invece a lungo sulle tariffe del residence o dell’albergo, tema su cui ognuno è segretamente convinto di aver trovato un’occasione migliore del vicino. L’altro giorno, più o meno a metà pomeriggio, è successo qualcosa nella città d’alta quota di cui ero un triste cittadino. Forse coordinati da un tam tam di cellulari - Telecom Italia Mobile conosce i suoi polli e fa arrivare fin sotto le vette le onde 3g - o alla meno peggio Edge - che servono per connettersi a internet con i telefonini - gli abitanti si sono riuniti davanti all’unico televisore del rifugio (si fa per dire rifugio, c’è anche la tivù) per vedere la finale olimpica della staffetta 4x100 metri piani. Una gara di trentasette secondi appena, tra le più brevi di tutti i giochi olimpici, talmente veloce che per capire veramente com’è andata, con tutti quei passaggi di testimone a fare confusione sullo schermo, bisogna rivederla due o tre volte al rallentatore, l’ideale per gente che mangia al fast food e si gode vacanze mordi e fuggi. Così una piccola folla di commissari tecnici mancati si è goduta, a 2 mila metri di quota, l’incredibile gara di un giamaicano che ha corso in scioltezza la sua frazione con meno tensione di quanta ne avessero i suoi spettatori nel rifugio dolomitico. Da quel momento in poi lassù si è parlato solo di Usain Bolt, dei suoi record mondiali e dei suoi sponsor milionari. Tutti parlavano di lui, tranne i bambini più piccoli (quelli cresciuti erano già corrotti), gli unici che lì fuori si erano accorti che le mucche attorno al sentiero erano vere e con un po’ di attenzione si poteva persino toccar loro la coda.
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